Lettera Maggio 2023
Carissimi,
in questo periodo stiamo vivendo in pienezza i frutti della Risurrezione del Signore e dal mattino di Pasqua abbiamo direttamente preso coscienza della nostra vocazione di cristiani fondata sul Battesimo, allorché abbiamo ascoltato l’Apostolo Paolo che ci ricordava la nostra identità: “Se dunque siete risuscitati con Cristo, cercate le realtà di lassù: dove si trova Cristo, assiso alla destra di Dio” (Col 3,1). Pasqua solleva questo pianeta di tombe verso una storia nuova.
Se Cristo è vivo, adesso, qui …, mi chiama, mi tocca, respira con me, semina gioia.
Realmente vivo, non simbolicamente vivo, non probabilmente vivo, non apparentemente vivo, ma realmente vivo (E. Ronchi). Pasqua ci invita a mettere il nostro respiro in sintonia con quell’immenso soffio che unisce incessantemente il visibile con l’invisibile, la terra e il cielo, il Verbo e la carne, il presente e l’oltre. Ci invita a respirare Cristo, Colui che è vivo!
In sostanza, dovremmo chiederci: in che cosa consiste “vivere da risorti”?
In questa lettera tenterò, seguendo soprattutto le indicazioni di S. Paolo nella Lettera ai Colossesi, un approfondimento non di natura biblica e morale – non intendo usurpare il ruolo degli esperti in questi campi- quanto un coinvolgimento personale e collettivo che, traendo fondamento dall’insegnamento ecclesiale, serva da fattore di discernimento nelle relazioni interpersonali a livello comunitario. La ragione, che costituisce la distanza del cristiano dal mondo, non è il disprezzo della realtà mondana né il pessimismo, ma la consapevolezza di essere una creatura nuova. Tale consapevolezza sollecita Paolo a concentrarsi sull’essenziale, non tanto su come cambiare le cose, ma su come diversamente valutarle e diversamente vivere in esse, con quale nuova coscienza gestirle: Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato.
Nelle prime battute dell’epistola suddetta, l’Apostolo augura ai destinatari del suo scritto di essere perfetti e maturi in Cristo, affermando chiaramente: “È Lui che noi annunciamo ammonendo ogni uomo e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo” (Col1,28).
Mi sembra alquanto suggestiva l’indicazione paolina perché rimanda alla crescita nella vera conoscenza di Dio (cfr. Col 1,10) che genera la maturità e la pienezza della vita in Cristo.
Questa è la mèta finale perché i destinatari sono “radicati e costruiti su di Lui, saldi nella fede come è stato (loro) insegnato” (Col 2,7). E nel versetto precedente leggiamo: “come dunque avete accolto Cristo Gesù, il Signore, in lui camminate”.
Come intendere questo invito pressante?
Sembrerà banale, ma Paolo dice che è a partire da questo dono (il Battesimo) che bisogna non solo costruire, ma percorrere la propria strada e riconsiderare i rapporti che abbiamo con gli altri. Pasqua è la festa dei macigni rotolati via dall’imboccatura del cuore e dell’anima; pertanto, il fine da raggiungere è quello di essere pronti alla primavera di rapporti nuovi, trascinati in alto dal Cristo risorgente. Fa eco il sentire di Ermes Ronchi: come il sole, Cristo ha preso il proprio slancio nel cuore di una notte, quella di Natale- piena di stelle, angeli, canti, greggi-, e lo riprende in un’altra notte, quella di Pasqua, notte di naufragio, di terribile silenzio, di buio ostile, dove veglia un pugno di uomini e di donne totalmente disorientati. Notte dell’incarnazione, in cui il Verbo si fa carne. Notte di risurrezione, in cui la carne indossa l’eternità, in cui si apre il sepolcro vuoto e nel giardino è primavera. Così respira la fede, da una notte all’altra.
Tutti comprendiamo che nel contesto socio-religioso contemporaneo non è scontato cogliere la portata di questo “radicamento” perché esso prende in contropiede la nostra cultura, come già accadeva ai tempi di S. Paolo, a tal punto che l’Apostolo dei Gentili rivolgeva ai Cristiani di Roma questo accorato appello: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,2).
Il “mezzo”, attraverso cui operare il discernimento, non può non essere la fede in Gesù Cristo, il quale ha trasferito gli uomini dalle tenebre al regno del suo amore (Col 1,13), perché tutti potessero confrontarsi con la realtà, che è Cristo (Col 2,17). A seguito di questa operazione, possiamo veramente accogliere il dono e il compito, accennati sopra, che danno spessore a tutta la vita dei cristiani: radicati e fondati su di Lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato sovrabbondando nel rendimento di grazie (Col 2,7).
Necessita, ora, sottolineare alcuni passaggi fondamentali. Anzitutto, il solo mezzo per riportare la vittoria della fede consiste nel restare fedeli agli insegnamenti ricevuti. Stando alle parole dell’Apostolo, l’insegnamento conduce alla fede. E una fede che rinunci a cercare il senso della vita, alla lunga è una fede senza futuro.
La testimonianza vissuta, quindi, è il fondamento incrollabile del Cristianesimo. Ciò comporta di tenere sempre lontano il rischio del fideismo, quel sottofondo di dogmatismo puro che si basa su una fede acritica e nega qualsiasi confronto di questa con la ragione.
A tal proposito, è opportuno riprendere le parole di S. Pietro, proclamate nella messa della VI Domenica di Pasqua: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3,15). E a noi e alle nostre paure e infedeltà, il Signore affida il mondo. Ci invita a guardare lontano e oltre, a pensare in grande, perché Lui ha fiducia in noi e sa che possiamo diventare lievito, contagiando di Spirito chi a noi è affidato. Ci conduce dalla chiusura entro il proprio io all’amore che abbraccia l’universo.
Il secondo mezzo per essere fortificati nella fede è quello di vivere nell’azione di grazie (lett. “sovrabbondando nell’azione di grazie”).
Non vi è alcun dubbio che questa sia la modalità migliore per lasciare che la fede si radichi in ciascuno di noi, anzi si potrebbe dire che “rendere grazie” è una certa maniera di essere radicati nella realtà. Provo a spiegarmi meglio.
Chi rende grazie ha preso coscienza di un dono ed è questo dono di Dio nel Cristo che costituisce la parte più reale della nostra vita. E la vera maturità cristiana, come accennavo sopra, si occupa e si preoccupa del reale. Al contrario, la ricerca di una “pienezza” attraverso la moltiplicazione di pratiche ascetiche, molte delle quali confinano con l’esoterismo, è lo sforzo che sfocia nell’ombra. La realtà, invece, è il Cristo e il suo corpo, la Chiesa. È qui che si trova la pienezza:“Nessuno dunque vi condanni in fatto di cibo o di bevanda, o per feste, noviluni e sabati: queste cose sono ombra di quelle future, ma la realtà è di Cristo. Nessuno che si compiace vanamente del culto degli angeli e corre dietro alle proprie immaginazioni, gonfio di orgoglio nella sua mente carnale, vi impedisca di conseguire il premio” (Col 2, 16-18).
Il senso di queste ultime parole di Paolo è chiaro: coloro che si vantano di essere più avanti degli altri a causa delle loro visioni, dei loro discepoli, sono in realtà gonfi di orgoglio, cioè non sono “spirituali”. Escludere il fratello, disprezzarlo, usare critica continua e costante, pensare di essere migliori e ritagliare per se stessi le parti più belle del Vangelo, pensando che a sbagliare siano sempre gli altri, mostra che non si è compreso nulla di Cristo. Facciamo attenzione!
La maturità si esprime nel sostegno che si porta gli uni agli altri, nell’amore del fratello, nel senso della comunità. È là che l’umanità nuova prende forma. Il vento e il fuoco di Dio devono fare i conti con la durezza del cuore dell’uomo, incerto e inquieto; ma lo Spirito ci chiama a fidarci dell’umile bellezza delle cose sul loro nascere, ad avere il coraggio di vegliare anche da soli sui primi passi della pace; allora è Lui che soffia nelle vele, Lui il vento sugli abissi, il respiro al primo Adamo, Lui l’Amore in ogni amore (E. Ronchi). E da qui ritorno a quanto espresso in apertura con l’interrogativo del che cosa significasse “vivere da risorti”.
Quale Dio è più bello di quello che si rende visibile? Paolo ne riscopre i tratti nel Gesù Nazareno risorto. Nell’Apostolo, ebreo dal temperamento di fuoco, che non conosce mezze misure, si concentra in modo emblematico il messaggio cristiano nella sua forza attualizzante e nella sua capacità di incidere nelle attese umane, senza perdere la sua identità. Di lui il poeta Mario Luzi scriveva: “Paolo è una figura enorme che emerge dal caos dell’errore e dell’inquieta aspettativa degli uomini per dare un senso alla speranza. Uomo venuto da una crisi planetaria …” e su ciò commenta G. Ravasi: la causa era nella trascendenza del mistero che egli annunziava, la cui misura è la realtà della salvezza, della redenzione, della pienezza attesa.
Di certo c’è un rischio e occorre evitarlo: fuggire dalla terra e abbandonare le responsabilità umane. Nelle parole di Paolo bisogna intravedere un appello a comprendere ogni cosa a partire dalla risurrezione. E rileggendo la propria vita, quella degli altri e quella del mondo a partire dalla rinascita, si troverà la nota giusta per agire. Tutto parla di risurrezione e la risurrezione traspare nella fede della comunità che celebra, nel fatto della croce che la comunità sperimenta, nel modo con cui Gesù ha affrontato la sua morte. Non la passione in funzione della risurrezione, ma la risurrezione in funzione della comprensione del dono di sé: lo spazio per dire Dio resta sempre l’esistenza donata.
Dio si incontra- e qui Egli si mostra- nell’esperienza del dono accolto e ridonato.
Le immagini che Paolo utilizza richiamano da vicino la vita nuova dei cristiani e dicono pure della vecchia condotta: “Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni (ira, animosità, cattiveria, insulti, e discorsi osceni, v.8) e avete rivestito il nuovo (Col 3,9).
Di che cosa veramente il cristiano è rivestito?
Di compassione, misericordia, bontà, umiltà, pazienza, carità, pace che devono regnare nei nostri cuori (cfr. Col 3, 12-15).
Cari amici,
il tempo pasquale ci ha donato tutto questo e noi siamo invitati ad accogliere l’iniziativa della Chiesa che non ci invita ad evadere da questo mondo e dalle sue strutture, ma ci sollecita ad inventare nuove relazioni quotidiane che aiutino ad indossare l’abito nuovo, quello di chi prende parte alle nozze dello Sposo e propone, “come conviene nel Signore” (Col 3,18), non solo un cambiamento esteriore (sarebbe un fatto di moda), ma la novità che nasce dalla libera adesione al progetto di amore divino.
Auguro a tutti un’esistenza in semplicità e novità di vita, lasciandoci afferrare dall’energia trascinante di Cristo- futuro,
p. Ettore
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