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Lettera Marzo 2022

Carissimi,

come già annunciato la riflessione di questo mese verte sull’esperienza profonda e graffiante della sofferenza umana, davanti alla quale anche il cristiano si pone domande inquietanti che chiamano in causa Dio.

Solo per introdurre il discorso, qualche giorno addietro, all’ora di cena un amico mi ha chiamato al telefono per mettermi al corrente, singhiozzando, della situazione sanitaria disperata di un suo familiare e dell’inevitabile contraccolpo sulla fede, chiedendosi: “Perché questa persona deve soffrire tanto?”. 

Ho ascoltato la sua disperazione e, alla fine, ho semplicemente aggiunto: “Ti sono vicino in questo momento di tenebre. Indegnamente pregherò per la persona gravemente ammalata e per te…”.

Come se non bastasse lo smarrimento dell’amico, in questi giorni siamo sommersi dal martellante tam-tam della guerra in Ucraina, che scuote nel profondo la nostra fede nel sentire, a tutte le ore e su tutti i canali televisivi e le stazioni radio, i vari bollettini di guerra con il carico di morti dei civili e, cosa più raccapricciante, la strage di bambini innocenti.

È questo un quadro a tinte molto fosche: pennellate di colore nero o grigio hanno imbrattato la tela colorata dell’esistenza di tanti che crudelmente cadono senza vita o cercano disperatamente una via di vita mediante i corridoi umanitari.

Davanti a un quadro tanto nitido, quanto raccapricciante, che sconvolge e rattrista l’animo, io non posso che mettermi ancora in ascolto della Parola di Dio, la quale non sminuisce la crudezza dell’abisso di tenebre e il lamento degli uomini seriamente provati dal male che, in tutte le sue sfaccettature, non risparmia i figli di Dio.

   La mia riflessione, pertanto, è una “rilettura” del Salmo 88 (87) che la Liturgia delle ore propone per la Compieta del Venerdì. Per questioni di spazio non lo trascrivo integralmente, perché ne riprenderò le espressioni più significative, senza indugiare troppo sull’esegesi.

Il salmista lamenta e grida “in faccia a Dio” gli orrori che hanno punteggiato la sua vita, fatta di molte sofferenze “fin da bambino” (v.16) e ora che si trova nell’imminenza della fine dell’esistere (lett. “nella fossa delle profondità sotterranee”, v.7) non comprende l’agire stesso dell’Altissimo.

La sua totale prostrazione gli fa dire che Dio non si interessa dei morti: “forse per i morti compirai prodigi?” (v. 11).

Il Salmo, lamentazione individuale in senso stretto, si snoda in codesta fitta rete di invocazioni e di querele, dove mancano i soliti elementi della fiducia e del rendimento di grazie. Tuttavia, è la confidenza fiduciosa balenante nell’appello iniziale Dio della mia salvezza a rendere possibile l’erompere delle istanze supplichevoli, come pure il susseguirsi degli interrogativi dei vv.11-13, che implicano in modo indiretto un voto di ringraziamento.

La colorazione assai cupa dello scritto si illumina nell’invocazione dell’Onnipotente, quale Dio della salvezza personale.

Pertanto, la Parola di Dio non tace di fronte alla sofferenza umana, anzi si fa voce della drammatica denuncia con cui quest’uomo chiama in causa Dio stesso: “…non ti ricordi più di me…mi ha sprofondato… (v.6) …la tua collera pesa su di me… (v. 8) …hai allontanato i miei conoscenti da me…mi hai reso ripugnante (v. 9) …respingi la mia anima, nascondi il tuo volto a me (v. 15)”.

La domanda del salmista inquieta anche noi: è “comprensibile” un Dio così descritto?

L’interrogativo, però, non deve trarre in inganno. Secondo Erich Zenger, esperto di Bibbia, “dubitare di Dio e accusarlo sono forme particolarmente intense del desiderio di Dio, e per questo il salmo 88 è una preghiera più autentica di tante frasi ‘pie’ che si dicono facilmente senza pensare”.

Con questa chiave di lettura, tenendo il testo del salmo davanti agli occhi, possiamo ripercorrere l’esperienza paradigmatica di sofferenza di quest’uomo, che effonde dal profondo del suo cuore il suo lamento verso il Datore della vita.

L’orante si trova alle soglie degli inferi, oppresso dalla sofferenza dovuta verosimilmente ad una incurabile malattia, forse la lebbra, visto che soffre un isolamento soffocante. Prende coscienza, come ogni uomo, di portarsi dietro un bagaglio di morte “fin dalla giovinezza” (v.16).

   Il dramma si ripropone: il grido di sfinimento di quest’uomo si è propagato, non sempre pienamente avvertito, seppur con molteplici varianti, in questi due ultimi anni, durante i quali oltre 170.000 italiani hanno perso la vita a causa delle complicazioni del Covid-19. E lo stesso grido non si traduce, forse, oggi nell’amaro sfogo di tanti individui prima di essere annientati dalla mano del nuovo Caino armata di strumenti di morte? Ed è fuorviante pensare che potrebbe trattarsi del pianto di dolore di molti adulti che, fin da bambini, hanno avuto la vita squassata dall’aggressione sessuale di persone (magari preti) che hanno distrutto irreparabilmente il corpo e l’anima attraverso un’intrusione violenta?

In tal caso, si dovrebbe coniare un’espressione concisa e immediata nel significato e nei risvolti: una “consacrazione dissacrata”. A tutto ciò si uniscono le tante grida di disperazione, vite paradossalmente annegate nelle acque del “mare nostrum”.

Il salmista si trova ora a fronteggiare l’ultimo nemico della vita umana: la morte (cfr. 1 Cor 15,26).

Non può non chiedersi: perché la morte? Che senso ha morire? 

La sua esistenza, adesso, “sazia di tanti mali” (v.3), intravede un solo orizzonte inevitabile: il sepolcro.

 E in questa circostanza la cosa più opprimente è riscoprirsi solo e la solitudine, in un certo senso, anticipa la fine della vita.

Scriveva mons. Jacques Gaillot, vescovo di Partenia, commentando l’XI stazione della “VIA CRUCIS”:

Soli, moriremo, tutti e ciascuno.

Soli, disperatamente soli”.

Se è vero che il salmista si vede abbondonato, tuttavia non desiste dall’invocare il Signore, esprimendo quasi il desiderio di ricominciare:

“Signore Dio…di giorno grido, di notte sto davanti a te (v. 2)

…ti invoco, Signore, tutto il giorno, verso di te protendo le mie mani (v.10)

…ma io verso di te, Signore, grido (v.14)”.

Eppure davanti a queste invocazioni, troviamo espressioni molto dure, quasi a contraddire lo slancio verso Dio:

“mi hai posto in una fossa profonda (v.7) …i tuoi terrori mi hanno annientato (v.17)”.

In realtà, l’orante attraverso un artificio letterario, per avere salva la vita ricorre a quello che si potrebbe definire un “ricatto d’amore” (Ludwig Monti), con il quale fa leva sull’amore di Dio (suo partner) con uno stratagemma particolare: se Dio non interviene in questo momento di estremo bisogno, dopo la morte neanche il salmista potrà più parlare dell’amore e della fedeltà divina: “Forse si racconterà nel sepolcro del tuo amore, la tua fedeltà nel luogo della perdizione?” (v. 12).

Alla fine di tutta la vicenda resta la domanda inquietante: “se veramente è Dio, perché la fine della vita?”

Per rispondere a questo fondamentale interrogativo, vi propongo una profonda riflessione di Enzo Bianchi nel testo Un Libro nelle viscere. I salmi, via della vita, Milano 2011. Nello specifico, dalle pagine 184-185 estraggo alcuni passaggi significativi:

“(…) viviamo nella sofferenza e nella sofferenza moriamo…sì, il salmo termina sulla nota della solitudine estrema, eppure tutto questo è vissuto davanti a Dio, nella fede e nell’alleanza”.

E proprio con le sue interrogazioni (vv.11 ss.) il salmista manifesta un alto concetto dell’umana esistenza: la vita è per lui amore di Dio nella lode di Dio. A questo egli aspira con tutte le fibre del suo essere. Non è questo, forse, un esempio atto a scuotere noi cristiani? Del resto, la Chiesa, usando suddetto Salmo nei giorni del Venerdì e del Sabato Santo (rispettivamente all’Ora media e all’Ufficio delle Letture), ci insegna a pregare con esso in senso positivo, perché vi scorge prefigurata l’agonia del Cristo. Difatti il cammino di Gesù verso la morte passa attraverso il sentimento del più abissale abbandono da parte di Dio (Mc 15,34) e degli uomini (Lc 23,49). 

Il Salmo può guidarci a condividere con il Signore, votato alla morte, l’oscurità e le afflizioni della sua anima.

La tradizione cristiana ha riletto questo lamento nell’ottica della discesa di Cristo tra i morti, Lui che era libero, esente dal peccato. La versione letterale del v. 6 in un codice ebraico ha questa importante variante: libero tra i morti, come gli uccisi…” che la traduzione latina elabora in “inter mortuos liber”.

Da qui scaturisce che non solo l’amore di Cristo è stato più forte della morte, ma pure la sua libertà.

Infatti, Pietro nel discorso di Pentecoste afferma: “Dio lo ha risuscitato liberandolo dai dolori della morte…” (At 2,24).

Quindi, nemmeno la morte ha potuto imprigionare la libertà di Gesù.

Proprio da questa realtà per gli uomini scaturisce un tesoro inestimabile. Di fronte alle tenebre della fine della vita, che spesso sono causate da fattori esterni (guerre e violenze di ogni genere) e interni (malattie di ogni tipo), chi ci potrà impedire di essere “liberi tra i morti”?

Si traduce come una vera e propria scommessa sulla morte, intendendo questa come inizio della Vita vera. Ci è concesso, cioè, di prendere consapevolezza – con una chiarezza sconvolgente e inquietante, ma insieme consolante- che il tempo concessoci non è altro che una preparazione all’Eternità. Non a caso il Mémorial pascaliano, testimonianza a caldo della “notte di fuoco”, della rivelazione di che cosa significhi davvero credere in Gesù Cristo, si conclude con un proposito che vale sino alla morte e con un promemoria che tutto spiega e tutto giustifica: Eternamente in gioia per un giorno di penitenza in terra.

Cari amici, se non possiamo sconfiggere la fine della vita, “possiamo sconfiggerla in vita qualche volta” (Charles Bukowski).

Auguri di ogni bene,

                                                                                                           p. Ettore

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