Lettera luglio 2021
Carissimi,
quest’ultima riflessione sulle Unità Pastorali vede la luce dopo il trionfo dell’Italia ai campionati europei, descritto da buona parte dei protagonisti come il realizzarsi di un sogno.
Anch’io, indegnamente, vorrei concludere questo trittico sulle U.P., adottando la metafora dell’utopia: un qualcosa che si desidera, ma non ancora pienamente realizzato.
Ritengo che suddette Unità, con l’avvio del prossimo anno pastorale, potranno muovere i primi passi e, come avviene per un bimbo che sfida se stesso nell’atto di camminare da solo per la prima volta, vedo la tranquillità e l’audacia nell’affrontare i numerosi rischi, ben consapevole della possibilità di inciampare e cadere, ma fermamente convinto della volontà di rialzarsi.
Questo sentire si sposa pienamente con quanto previsto dalle Unità Pastorali, realtà nuove con modalità nuove e proprio perché nuove spaventano e/o fanno tremare le certezze, di cui siamo detentori da anni circa le peculiarità che l’atto pastorale deve contenere in sé. Tuttavia, il desiderio di partire e sempre ricominciare è iscritto nel cuore di ogni uomo che si sente amato, così come nel DNA del bambino dimora la consapevolezza che, dopo qualche lacrima, sperimenterà le mani aperte e sicure dei genitori, abbraccio che tutti noi abbiamo conosciuto a seguito di caduta fisica o spirituale. Se, di certo, la scelta delle U.P. è un percorso a tutti nuovo, l’atteggiamento con il quale affrontare siffatta scelta non potrà non essere quello della sfida e di una “sfida pastorale” (ritorna la metafora calcistica) che, per quanto impegnativa, sarà intrigante e coinvolgente perché radicata unicamente nella fede cristiana, fede che spinge alla missione: “prendi il largo” (Lc 5,4), ma prima sarà necessario salire sulla barca, naturalmente non per sconfinare in “terra nemica”, ma perché il campo d’azione territoriale sarà molto più esteso e in termini geografici e, principalmente, in chiave socio-ecclesiale.
In un momento storico di forti incertezze e /o di mancate sicurezze fa eco la melodia del canto:
Saliremo sulla barca anche noi, il tuo vento soffia già sulle vele.
Prenderemo il largo dove vuoi Tu, insieme a Te, Gesù.
Di certo, se il Signore non costruisce la sua casa, invano faticano i costruttori (cfr. Sal 127). Il nuovo input pastorale deve essere supportato dalla preghiera singola e comunitaria, altrimenti ogni progetto resterà esclusivamente umano.
Sogno che l’avvio delle U.P. sia la concretizzazione della pagina evangelica che condanna quei pochi uomini che “per paura” sotterrano i talenti elargiti dal Signore e di quella che delinea la maggioranza degli esseri umani che si dà da fare per realizzare quel quid di bene che farà dire al padrone: “Venite, servi buoni e fedeli...” (cfr. Lc 19, 12-27). Se è vero che fino a oggi si è badato principalmente a “conservare” pastoralmente quel poco che è rimasto, vivendo spesso in uno stato di irresponsabilità “peccaminosa”, perché sorda, se non addirittura ostile alla voce di Dio e alla sua chiamata (Dionigi Tettamanzi, Lettera Pastorale MI SARETE TESTIMONI, Milano 2003), adesso bisogna cessare con i lamenti (che nel nostro dialetto suonano “lastime”, termine di provenienza spagnola, ma che tradotto in italiano non rende appieno il significato ricco che contiene e che noi, da bravi siciliani, comprendiamo) e almeno tentare di incidere positivamente, nella società dell’oggi, la vita degli uomini contemporanei.
Sogno che il passaggio di mentalità, ancor prima di quello lessicale, da “la mia parrocchia” a “la nostra unità pastorale” colga preparati e convinti anzitutto noi preti e che il popolo di Dio possa sentirsi a casa, testimoniando una fede dagli orizzonti larghi, superando steccati e campanilismi e promuovendo il senso di “appartenenza” che – secondo la felice intuizione di Giorgio Gaber, Canzone dell’appartenenza, in “E pensare che c’era il pensiero”, 1994 – è avere gli altri dentro di sé, è quella forza che prepara al grande salto decisivo.
Il senso di appartenenza rimanda, poi, alla corresponsabilità che naturalmente spinge al “portare gli uni i pesi degli altri” (Gal 6,2). Infatti, tutti i soggetti della pastorale, ciascuno secondo le proprie risorse umane e cristiane, dovranno essere capaci di contagiare il territorio di quello spirito di comunione che tiene legati in vista della missione, missione punteggiata dall’alleanza educativa sancita fra i membri, quasi a riproporre plasticamente l’iniziativa di Dio che sceglie di camminare con il suo popolo.
Sogno comunità audaci che sappiano liberarsi, con l’aiuto del Signore, della “sindrome di Ulisse”, meglio nota come “malattia degli immigrati”. Si tratta di un complesso che colpisce chi va a vivere in un Paese diverso da quello natìo e pensa sempre rivolto al passato. Questa patologia, al di là dei soggetti direttamente interessati, pare che dilaghi anche fra i cristiani, facendoli ripiegare unicamente sulle tradizioni del passato e sbarrando la strada alla speranza, alle novità del mattino di Pasqua. Non è più ammissibile il consumato refrain: “Si è fatto sempre così”, perché secondo papa Francesco “i cristiani che si ostinano nel pensare così, peccano, peccano di divinazione e idolatria […] Alle novità dello Spirito, alle sorprese di Dio anche le abitudini devono rinnovarsi”.
Di certo, l’ideale sarebbe riuscire a conciliare in simbiosi la tradizione e il nuovo, ad innestare l’originalità e il cambiamento su ciò che di bello e buono è presente da sempre nelle nostre comunità parrocchiali, che non devono e non possono essere cancellate, ma inglobate in un progetto ben più ampio ed univoco di ecclesìa.
I sogni si concludono con una nota che sarebbe andata bene anche in premessa.
Le U.P. non potranno non muoversi che in un orizzonte ecclesiale, perché i riferimenti dell’agire pastorale non potranno mai cancellare il vescovo, il parroco, la comunità territoriale e il cammino della diocesi.
Se solo per un attimo si dovesse smarrire questo quadro di orientamento, allora sarà la fine di tutto. Vengono così bandite le ricadute autoreferenziali, che talvolta impongono i tratti del sé, del piccolo gruppo, quasi una sorta di “clan” in grado di monopolizzare e manipolare la realtà comunitaria.
Arrivato al capolinea dei sogni, qualcuno sarà non solo scettico ma pure divertito davanti a quest’attività onirica, perché i sogni svaniscono alla prime luci del giorno…, ma io li ho messi su carta nel momento in cui, prima dello spuntare del sole sullo Jonio, l’orizzonte cominciava timidamente a tingersi di bianco…
Auguri per un’estate vissuta in serenità e fraternità,
p. Ettore
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