Lettera giugno 2021
Carissimi, come già anticipato, desidero riprendere ed approfondire la riflessione, ormai avviata, circa le Unità Pastorali, realtà nuova da pensare, amare, costruire, avviare in costante e continua comunione tra le parti interessate. Questo secondo momento di analisi-condivisione- meditazione si apre sulla figura e sul ruolo del sacerdote, interpellato per primo, come “albero della trasmissione” dell’azione pastorale e non il solo interessato, ma colui che deve essere capace del cambiamento in atto, supportato dall’azione e dalla presenza di laici coinvolti, motivati, al fine di un vero rinnovamento spirituale del “bacino d’utenza” di appartenenza, o meglio la porzione del popolo santo di Dio sul territorio. Nello specifico, proprio nella prossima lettera allargherò il campo di riflessione sul coinvolgimento di tutta la comunità cristiana per avere una visione più nitida ed univoca di quanto in progetto, che è da tradursi a breve in prassi. Da prete mi rivolgo ai confratelli senza indossare i panni del maestro, ma quale semplice compagno di viaggio o di traversata, dal momento che tutti siamo sulla stessa barca, le cui vele sono spinte dalla brezza leggera dello Spirito. Il tentativo è quello di tracciare una sorta di mappa di orientamento circa le ricadute del ministero presbiterale sulle rispettive comunità parrocchiali. In particolare, il mese di giugno, tradizionalmente dedicato al Sacratissimo Cuore di Gesù, vede la partecipazione di tutti i presbiteri alla Celebrazione Mondiale di Santificazione Sacerdotale, occasione questa per ripensare tutti il nostro mandato nella Chiesa. Sulle parole di S. Paolo (2 Cor 3,4ss) Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio, il quale anche ci ha resi capaci di essere ministri di una nuova alleanza, non della lettera, ma dello Spirito meditiamo sulla nostra vocazione che si deve, oggi, tradurre in missione sul territorio di appartenenza, in simbiosi con le realtà laiche, con cui interagisce, e con una diocesi che non deve, di certo, perdere il suo ruolo portante nella vita comunitaria della Chiesa orante, quella di Nazareth, e della Chiesa in missione, quella del Cenacolo. Il Santo Curato d’Ars ha sempre sottolineato come ciò che impedisce a noi sacerdoti di essere santi è la mancanza di riflessione. Riflessione = Preghiera = Unione con Dio. La difficoltà vera è non riuscire a rientrare in se stessi, vivendo una vita eccessivamente occupata, ma non autenticamente pensata. Pertanto, la riflessione si articola in due momenti, di cui il primo prende le mosse dall’inevitabile constatazione del cambiamento post-conciliare della figura del prete, àmbito nel quale difficilmente il presbitero riesce a trovare una sua chiara collocazione dentro la comunità. In pochi anni si è passati dal ruolo di “leva”, su cui tutto poggiava, a quello di “corresponsabile” con il mondo laicale, frutto anche di una fraintesa comprensione di una “Chiesa tutta ministeriale”. Le ricadute sulla pastorale hanno avuto un duplice effetto: 1. l’alternativa, ovvero il parroco che rimette tutto nelle mani dei laici, ai quali affida un ministero- spesso di fatto – e lui si ritaglia il ruolo di semplice “gestore”; 2. il contrappeso della comunità, cioè un prete che cerca di controbilanciare i pesi specifici dei laici e il proprio all’interno della comunità, come si fa con gli ingredienti di una perfetta ricetta culinaria. Per questione di sintesi non mi soffermo a descrivere i dettagli di queste due realtà, ognuno potrà farlo, attingendo al bagaglio della propria esperienza. Intanto l’evoluzione del contesto storico costringe i responsabili della pastorale a prendere coscienza di due fattori oggettivi determinanti: la diminuzione del clero e l’innalzamento della sua età media. È obbligatorio (e provvidenziale!) chiedersi: può ancora la comunità parrocchiale essere a misura del parroco? Può ancora la stessa esibire un volto “verticistico” e “individualistico” del rapporto pastore/comunità? È possibile ancora che il presbitero curi molto bene il proprio orticello (parrocchia) tralasciando di interagire con la Chiesa locale? Del Concilio Vaticano II si dovrebbe almeno cogliere il cambiamento di rotta nell’immagine di Chiesa: il passaggio da una ecclesiologia giuridica (Chiesa come “societas perfecta”) a quella comunionale (Chiesa come “mistero di comunione”). Da questo cambiamento ne deriva che la pastorale non ha più (dal 1964!) come soggetto solo il pastore ed i “collaboratori dell’apostolato gerarchico”, ma tutto il popolo di Dio. Qui, a mio avviso, si innerva direttamente il discorso che coinvolge soprattutto i preti nella “conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa” (Istruzione, a cura della Congregazione per il Clero del 20.07.2020). Questo documento recentissimo, forse sconosciuto per colpa della pandemia, pone l’accento sulla “orizzontalità” e “comunionalità” del parroco, condizioni preliminari allo svolgimento del suo ministero. Tutti dovremmo “acquisire la consapevolezza che è finito il tempo della parrocchia autosufficiente” (CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, 2004, n° 11; corsivo nell’originale). E se ciò fosse oggettivamente constatabile e vero, allora dovremmo concludere che è finita anche la figura del parroco isolato e feudatario. Ho scelto volutamente di coniugare la frase precedente al congiuntivo, tempo che indica un evento ipotetico, per non offendere alcuno, tuttavia è bene evidenziare che la stessa può essere coniugata con i tempi dell’indicativo presente, tempo di certezza e realtà oggettiva… “e ciò è oggettivamente constatabile…”. Questa “ipotesi” si fonda, tuttavia, su un fatto certo: il parroco è l’uomo della comunione che rende “in certo modo presente” nella parrocchia il Vescovo (LG 28), nella comunione dell’unico presbiterio. In questa “rinnovata” prospettiva la missionarietà della parrocchia, animata dal parroco, è strettamente legata alla sua intensità nel vivere, non da sola, ma nel tessuto vitale ed esistenziale del territorio gli orientamenti pastorali della diocesi e i vari interventi del magistero episcopale. Soffermarsi ampiamente su quanto detto risulta necessario perché è bene ribadire che il discorso sulle Unità Pastorali prescrive una relazione vitale fra parrocchie e chiesa locale. In altri termini più diretti e senza fraintendimenti, è impensabile che la singola parrocchia viva una dimensione di isolamento e/o separazione dalla Chiesa locale: si è membra di un unico corpo e la missione è tale, se condivisa. Il documento della CEI sopracitato, allo stesso numero, richiede che vi sia non “solo il rapporto fra parrocchie, ma ancor prima quello delle parrocchie con la chiesa particolare. Pertanto, la realtà parrocchiale ha due riferimenti: la diocesi da una parte e il territorio dall’altra; ma il riferimento alla diocesi è primario” (sic). A questo è da aggiungere che oggi più che mai il ministero non può non esercitarsi se non dentro un’autentica collegialità: “il presbiterio” (LG 28), che se da un lato potrebbe limitare la libertà di azione del presbitero, dall’altro la rende più intensa. Mi avvio alla conclusione, riprendendo il testo di un sms inviatomi da un amico il giorno prima dell’incontro zonale a Forza D’Agrò. Mi è sembrato una profezia in vista della costituzione delle Unità Pastorali: “Quando soffia il vento del cambiamento, alcuni costruiscono dei ripari, altri costruiscono dei mulini a vento”. Alcune cose avvengono per migliorarci: non lasciamole sfuggire! Auguro a tutti uno scambio di gesti concreti di fraternità senza alcun pregiudizio, l’accettazione della sfida della sopportazione e delle debolezze altrui, corroborate dalla pazienza e dalla consolazione, unite alla speranza di gustare quant’è buono il Signore. Il nostro Dio, sorgente di ogni bene, ispiri propositi giusti e santi e ci doni il suo aiuto perché possiamo attuarli nella nostra dimensione comunitaria. p. Ettore
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