Lettera gennaio 2021
Carissimi,
la riflessione di questo mese, inizio anno 2021, vuole essere una ripresa di un sentire già iniziato nel novembre scorso ed ora approfondito in altro aspetto per essere ruminato insieme.
Il tutto ruota attorno alla parabola del seme e del seminatore (cfr. Mc 4, 26-28).
Mentre nelle due precedenti lettere mi sono soffermato sul concetto di seme, adesso intendo porre la vostra e la mia attenzione sul soggetto che compie l’atto della semina: un gesto naturale, istintivo, ma che richiede cura, applicazione ed impegno nel momento stesso dell’azione che in sé cela e racchiude, un gesto legato ad un mondo, quello contadino, che va scomparendo e di cui noi moderni, nuove generazioni supportate da conoscenze digitali, non sempre sappiamo cogliere la bellezza. Il mondo agreste sa leggere i tempi lenti della Natura, sa fermarsi, osservare, attendere con costanza e prudenza i frutti da gustare, dimenticando la fatica.
Un’eco delicata e soave è quella che riecheggia nelle parole del Vangelo di Marco 4,3:
“Ascoltate. Ecco, il seminatore uscì a seminare”.
Il focus su cui porre maggiore attenzione vuole essere il verbo “uscì”, perché rimanda e richiama un’attività vitale non solo per il seminatore, ma per tutti noi. Questo verbo nella Sacra Scrittura è utilizzato per indicare l’Esodo (lett. “uscita”), cioè l’esperienza che sta alla base del popolo di Israele e, nel contesto del nostro brano, indica proprio l’iniziativa del seminatore di mettersi in movimento, di scomodarsi, di compiere un gesto semplice e, al contempo, irrinunciabile.
È questo l’inizio di un cammino, di un riprendere la strada, che va ben oltre l’esplicito ed immediato riferimento all’attività manuale del seminatore. Questi è operativo, compie con le mani un gesto rituale, lento, armonico, in quanto sa bene di dover rispettare quel processo della natura, mediante il quale la terra stessa darà il suo frutto.
E da qui cominciano ad affiorare i primi esiti di riflessione comunitaria: io e voi, voi insieme a me, io pastore insieme a voi, noi parrocchia inserita dentro un contesto storico-culturale di riferimento, non realtà singola, lontana, a sé stante, ma comunità che intende camminare in sintonia con la diocesi, in particolare, e con la Chiesa in generale. Quanti cristiani hanno del loro impegno una visione statica, fatalistica, per non dire superstiziosa o addirittura idolatrica e strumentalizzante? Sono queste sfaccettature di un rapporto sbagliato con la natura e con la “madre terra”… Un esempio è dato dallo sfruttamento fino all’inverosimile della terra e dall’ammassare del ricco insensato (cfr. Lc 12, 16-21), che si ritrova disperatamente solo, avendo rifiutato la propria povertà, luogo privilegiato dell’accoglienza dell’altro.
L’idea del cammino da compiere, mai da soli, ma in compagnia di un amico, un fratello, una sorella ci abilita ad aprire una breccia sull’opacità della vita e del mondo che ci circonda.
Non è forse quanto già avvenuto ai due di Emmaus (cfr. Lc 24,13-35)?
Per raccogliere il frutto delle nostre fatiche è indispensabile uscire, “metterci la faccia”, rischiare anche il fallimento…senza vivacchiare nelle nostre “paralisi” esistenziali e pastorali!
In un tempo di crisi morale, il cristiano non può mantenersi neutrale: l’indifferenza è l’invincibile gigante del mondo. Se non siamo felici e in pace, non possiamo condividere la semente di felicità e di pace che il mondo ci chiede perché noi diciamo di avere incontrato Cristo; ma se lo siamo, se siamo capaci di vivere questa dimensione, pur nella nostra fragilità, allora sì che saremo capaci ancora di sbocciare come fiori, nuovi virgulti, giovani piantine nel campo di Dio ed ognuno nella propria famiglia, in parrocchia, nei quartieri e sul posto di lavoro, nell’intera società, trarrà beneficio dalla nostra pace.
Purtroppo assistiamo sempre più a navigatori solitari, e non mi riferisco a coloro che fanno il giro del mondo in barca, precludendoci la possibilità insita nell’uscire – di casa, dalle nostre comodità, dalle false sicurezze – per contemplare la natura così com’è…
Ahimè! il mondo industrializzato, nel quale ci muoviamo ed esistiamo, non ha tempo per “guardare i corvi che non seminano, eppure il Padre provvede il cibo per loro…i gigli dei campi che non faticano e non filano…eppure nemmeno Salomone vestiva come uno di loro…” (Lc 12,24-27).
Le nostre città e contrade sono ormai assediate dal cemento e non vi è spazio né tempo per ammirare la germinazione del grano. Sarebbe interessante chiedersi quanti hanno ammirato in questo periodo le pianticelle di frumento seminato circa due mesi addietro…
Abbiamo ancora bisogno di incanto: aprire gli occhi, spalancare il cuore, rallegrarsi per una natura che germoglia e viene ancora incontro all’uomo distratto ed immerso nella frenesia quotidiana, incapace di provare stupore davanti allo spettacolo gratuito del creato.
Non indugiamo nell’inverno, quando è già primavera! È forse cosa da poco aver goduto il sole, aver vissuto splendide primavere, aver amato, aver favorito veri amici, aver superato avversari che hanno ostacolato le nostre azioni e tutto sempre in nome di un Dio che si fa pane, nutrimento e sostegno del quotidiano? Aperti alla vita: questo dovrebbe essere il nostro motto.
Una semplice pioggerellina rende le numerose tonalità dell’erba più verdi. Così le nostre prospettive diventano più luminose sotto l’influsso di pensieri più elevati, più alti.
Propongo questo esercizio per cogliere quanto proponeva il Messaggio per la Giornata della Custodia del Creato (2017), invitando tutti gli uomini ad uno sguardo appassionato e trasparente sull’opera delle mani di Dio, come quello del bambino (cfr. Sal 8):
“Un’educazione alla custodia del creato esige, dunque, anche una formazione dello sguardo, perché impari a coglierne ed apprezzarne la bellezza,
fino a scoprirvi un segno di Colui che ce la dona”.
Scrivo questo perché la provvidenza di Dio, attraverso la natura, interpella sempre la nostra libertà profonda: il Signore si manifesta sempre in ciò che di buono sta per arrivare.
Il seminatore “getta” il seme nella terra perché sa che questa ha in sé una forza “generativa”.
E proprio la fecondità della natura deve diventare il paradigma della nostra vita…
In una larga comprensione, non solo linguistica, ma soprattutto esistenziale e biblica, la fecondità rimanda ad altri sinonimi. Fecondità è “dono”, “riconoscimento”, “nascita”, “compassione”, “gioia”.
Con questi sostantivi possiamo e dobbiamo tessere i fili dell’uscita e della speranza per gustare che “ogni opera supera la bellezza dell’altra: chi può stancarsi di contemplare il loro splendore?” (Sir 42,25).
Auguri.
p. Ettore
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